Il fascino del bene e la banalità del male di Pietro Barbetta

IL FASCINO DEL BENE E LA BANALITÀ DEL MALE di Pietro Barbetta

Tra pochi giorni – il 12 febbraio prossimo, alle ore 21, alla Casa della Psicologia – si inaugura in via ufficiale la collaborazione e l’incontro tra Gariwo-La Foresta dei Giusti e l’Ordine degli Psicologi della Lombardia. È un incontro preparato da contatti che proseguono da mesi. Tutto è cominciato davanti a un tavolo da pranzo a Roma, nell’intervallo di un importante convegno internazionale, organizzato da David Meghnagi, Marcelo Pakman e me al Museo della Shoah della capitale.

Il fascino dell’arte: etica come estetica

Il tema era l’Arte e la Shoah; il dibattito consisteva nel raccogliere idee e pratiche artistiche in vista della futura scomparsa dei testimoni oculari. L’arte fornisce un contributo alla memoria e, in particolare, alla memoria della Shoah; è un sistema in cui etica ed estetica diventano inscindibili. L’arte – come sostengono il filosofo Gilles Deleuze e lo psicoanalista Felix Guattari in Che cos’è la filosofia? – produce precetti e affetti che affezionano il mondo in maniera stabile, permanente, per così dire, eterna, come la scrittura di Primo Levi, che, come sostiene Marco Belpoliti, sembra incisa su una lapide. L’arte lascia un segno permanente. Lo sosteneva anche James Joyce in Dedalus. Possiede stabilità, non crea bisogni passeggeri, non è cinetica, crea claritas, un modo diverso di guardare al mondo, alimenta il nostro immaginario e le nostre rêverie, fa emergere la realtà ben più della cronaca. La cronaca “maggiore” tende a nascondere la realtà sotto un manto ideologico di “fatti”. Tutte le cronache di guerra del mondo non valgono nulla di fronte a Guernica, ma bisogna guardarlo a fondo, nel minuti particolari della composizione, per capire e provare tutto il dolore morale della guerra.

Cronache minori

Ebbene, per tornare alla “cronaca minore” dell’incontro, durante l’intervallo di quel convegno, Gabriele Nissim, a cui sono amico da quarant’anni, mi illustrava l’esperienza di Gariwo nelle scuole. Gli chiesi se Gariwo fosse interessata anche a iniziative con gli psicologi. Fu in quel momento che iniziammo a pensare di coinvolgere il mondo dei miei colleghi, professionisti della salute mentale, ma sempre legati alla questione sociale.

Giorni dopo incontrai, durante un’iniziativa dell’Ordine degli Psicologi a Milano, il Presidente Riccardo Bettiga e non esitai a parlargli di questo sogno, ancora abbastanza confuso. La domanda era: in che modo coinvolgere gli psicologi in un lavoro con Gariwo? Si trattava di capire bene cos’è Gariwo. Emerse che Gariwo è la foresta dei Giusti, che prende ispirazione dal Giardino dei Giusti di Gerusalemme. Oltre a Nissim, l’altro leader di Gariwo è Piero Kuciukian, che rappresenta la memoria della prima grande strage moderna contro l’umanità, quella da parte del Governo Turco contro gli Armeni intorno al 1915-16. La Foresta dei Giusti dedica un albero a chiunque abbia salvato vite umane in circostanze di stragi, massacri, persecuzioni. Benché la Shoah rimanga il paradigma di ogni altro crimine contro l’umanità precedente e successivo, purtroppo crimini e genocidi si ripetono ogni giorno sotto i nostri occhi.

Da tempo l’Ordine degli psicologi della Lombardia aveva organizzato un gruppo di lavoro intorno ai diritti umani, coordinato da Gabriella Scaduto, una collega con una lunga esperienza di lavoro psicologico sul campo in America Latina, dove spesso anch’io ho lavorato. In America Latina, il lavoro psicologico affronta casi e situazioni di trauma, circostanze di povertà, devastazione sociale e culturale: dai continui colpi di scena dittatoriali, alla condizione dei bambini di strada, le favelas, la criminalità diffusa, la corruzione, la particolare condizione di oppressione delle donne.

Insomma: Gabriella Scaduto, Riccardo Bettiga, Gabriele Nissim, Anna Maria Samuelli, Martina Landi, Ulianova Radice, recentemente scomparsa, e il sottoscritto abbiamo iniziato ad avviare una serie di consultazioni che ci hanno condotto a ragionare sul tema del ruolo della psicologia riguardo ai Giusti.

Chi sono i Giusti?

Nei suoi libri e riflessioni Nissim chiarisce che il Giusto non è un Eroe, che di eroi ne abbiamo già avuti abbastanza. Gli eroi sono disposti a morire per una causa trascendente: un’ideologia, una religione, un credo, magari anche una truffa alla quale abboccano (il razzismo, la dialettica, il populismo, la dittatura del proletariato, ecc.). Al contrario, il Giusto è una persona come tante altre, magari anche peggio, vive la sua vita quotidiana, piena di gioie e dolori, vizi e dipendenze, magari condivide una delle ideologie menzionate sopra, o appartiene a un gruppo diverso da quello perseguitato, insomma è salvo; ma quando vede un vagone carico di persone da deportare, una nave piena di povera gente che non può attraccare, anziché girare la testa dall’altra parte, si mette di mezzo e prova a fare qualcosa, rischia del suo; in quel minuto particolare si accorge perché vale la pena di vivere la vita, si accorge che non è il caso di fare il cadavere anzitempo, prima di morire: “agere aude!”.

Nissim fa riferimento ai Nistarim, i Nascosti. Secondo la tradizione ebraica ce ne sono 36 per ogni generazione. Nella Gematria, che fa parte del testo ebraico, la parola che li designa corrisponde al numero 36. Ma spesso i nascosti, i Giusti, non sanno neppure loro di essere nascosti, ci vuole qualcuno o qualcosa che lo riveli anche a loro: un evento che li affascini a diventare soggetti, a metterci del proprio.

Non è tutto questo affascinante? I due elementi di fascino

Di fronte all’ignoranza e alla stupidità del male, non è intrigante, curioso e affascinante scoprirsi a fare del bene anche se si sta dalla parte degli oppressori, come Schindler? O solo per l’attrazione sessuale che si prova per una persona che sta dall’altra parte della barricata, come Perlasca?

Il primo elemento di fascino per gli psicologi è quello di scoprire, promuovere, connotare positivamente i nascosti. Spesso i nascosti sono nascosti dai loro sintomi, le preoccupazioni, l’angoscia e la paura, come molti europei che soffrono di xenofobia, omofobia, ecc.; oppure dalle privazioni, l’incarcerazione, la tortura, come i giovani asiatici e africani che approdano in Libia. Tutti sanno che la Libia è oggi l’emergenza umanitaria europea per antonomasia, come lo erano durante l’ultima guerra mondiale, i campi tedeschi: ognuno lo sapeva, ciascuno faceva finta di nulla.
Si tratta di trasformare i sintomi in risorse. I sintomi sono come le becchettate degli uccellini ai vetri di casa, diceva Guattari, segnalano che hanno freddo, fame; saperli trattare con tenerezza è la nostra arte.

Il secondo elemento affascinante del bene è che “il bene si fa nei minuti particolari”, come sosteneva spesso William Blake e – sulla scorta di Blake – Gregory Bateson.
Dove sono, quando avvengono, i “minuti particolari”? Nella nostra professione, chiunque chieda aiuto – indipendentemente dal fatto che abbia seguito un’ideologia radicale, una religione fondamentalista, o qualche altro trucco di quelli menzionati sopra – va aiutato con tutta l’attenzione e tutta la tenerezza possibile. Che sia una persona oppressa, che sia una persona che ha oppresso, ma che si è realmente dispiaciuta e pentita, va aiutata. Io penso che, questo salto iperbolico, che ci richiedeva il filosofo Jacques Derrida negli ultimi suoi scritti – “perdonare l’imperdonabile, prescrivere l’imprescrittibile” – è ciò che dobbiamo imparare a fare bene, in modo “giusto” nel nostro lavoro.

Ci sono eccezioni? Sì, sul piano giuridico, sul piano morale, certo; ma non nei minuti particolari dell’incontro di una/o psicologa/o, una/o medico, una/un infermiera/e, una/un assistente sociale con l’altro. Chi lavora in questo ambito sa, intuisce, questi minuti particolari. Si tratta solo di imparare a gestirli, e qui subentrano i metodi e le tecniche da studiare, gli approcci da seguire per rendere queste intuizioni fruttuose, realmente operative, efficaci; ma chi non sente il fascino dei minuti particolari si può dare alla politica, intesa come la si intende oggi, e continuare a ripetere “la banalità del male”. Per questo, come vediamo, non è necessario neppure uno straccio di laurea; basta gridare più forte degli altri.

Analisi di Pietro Barbetta, direttore del Centro Milanese di Terapia della Famiglia